Inizia la nuova stagione di riparazione degli oggetti casalinghi con la stampante 3D !! L’oggetto in questione è lo scolapiatti della cucina, un sostegno si è incrinato e per evitare di ritrovarmi a terra tutti i piatti ho deciso così di modificare il sostegno.
Materiali:
Barre in alluminio – Dm:10mm
Supporti stampati in 3D (blu)
Bulloneria varia
Progettazione supporti stampati in 3D
Per la progettazione dei supporti dello scola piatti, ho utilizzato Fusion360 per la sua semplicità d’utilizzo.
Avvio stampa supporti
Dopo aver progetto tramite Fusion360 i supporti ed averli esportati in STL, è il momento di preparare il file per la stampante 3D. Il disegno creato viene inserito nel software slicer Cura per poi creare un file g-code.
Montaggio del nuovo scolapiatti
Ora è il momento di togliere tutte le stoviglie e smontare lo scolapiatti dal mobile. Successivamente prendere la misura della lunghezza delle barre in alluminio da tagliare considerando però l’ingombro del supporto stampato.
Dopo aver tagliato le barre a misure, bisogna inserirle nell’apposito spazio dello scolapiatti ed improntare già alle estremità i supporti blu stampati.
Una volta prese due misure dove vanno collocati, gli smonto dalle barre e con la bolla controllo che siano tutti orizzontali, quindi faccio i fori per avvitare le viti da legno nel mobile.
Infine prendo lo scolapiatti con le barre in alluminio già inserite, e se tutto va bene, lo calo dall’alto e lo stringo al supporto inferiore blu ,già fissato al mobile , tramite un coperchio e due bulloni.
Ecco a voi il risultato finito, aggiorno l’articolo a quattro mesi di distanza dicendo che ancora regge la modifica fatta allo scolapiatti.
Buttare qualcosa fa sempre male. Per un motivo o un altro, buttare un mobile, un giocattolo o qualcosa con cui si è passato tanto tempo non è piacevole se non quando viene effettivamente rimpiazzato per un suo difetto. Qui voglio mostrare come con materiali che avrei diversamente buttato ho creato uno stendino da muro per asciugare i panni.*
vecchi assi per appendere le grucce (possono andare bene anche dei vecchi manici di scopa)
Viti da legno
Viti da muro con tasselli
Staffe (o altro legno per sostituirle)
Strumenti:
Seghetto
Trapano
Colla vinilica
2 Morsetti
Progettazione dello stendino
L’idea è quella di usare le assi di legno come travi di supporto per gli assi su cui si andranno a stendere i panni. Su di esse verranno fatti degli scassi, nel mio caso con sega manuale, in cui si inseriranno gli assi. Il tutto verrà fissato al muro con delle staffe avvitate alle travi. Nel mio caso le staffe saranno stampate in 3D in ABS, ma è facile trovare staffe da muro adatte in un qualsiasi ferramenta.
Gli assi da pallet a mia disposizione sono spessi 28 mm ma gli assi che utilizzerò sono da poco più di 1 metro e mettendone 3 ho ritenuto insufficiente usare solo 2 assi da 28mm per questioni di peso che supporterà lo stendino, quindi raddoppierò.
Preparazione delle parti
La prima cosa che ho fatto è stato tagliare a misura (nel mio caso 400mm) gli assi di legno per un totale di 4 pezzi.
Questi pezzi verranno incollati a coppie, con colla vinilica, così da ottenere uno spessore maggiore. Per garantire la presa della colla, l’ho spalmata sulle facce che andranno in contatto e tenute unite fino ad asciugatura con 2 morsetti (se ne avete di più è meglio).
Poi mi sono dedicato al disegno, al calcolo FEM e alla stampa della staffa.
L’ultimo passaggio prima di assemblare il tutto è quello di eseguire degli scassi con un seghetto o simile nelle travi (dopo che la colla sarà asciutta) così da creare la sede di appoggio per gli assi sui cui si stenderanno i panni. Diversamente si potrebbero fissare con delle viti.
Assemblaggio dello stendino
Per praticità consiglio come primo passaggio di fissare le staffe alle travi con le viti da legno. Prendere poi le misure precise per definire la posizione delle travi e segnare dove forare il muro nota la posizione della staffa. Quindi forare il muro e mettere i tasselli. Mettere in posizioni le travi e avvitarle al muro ed in fine mettere in posizioni gli assi dello stendino
Idee alternative
In modo analogo è possibile creare delle mensole con lo stesso legno ricavato da un pallet, l’unica accortezza in più in questo caso è quella di pulire bene il legno ed evitare che si creino schegge.
*Makers ITIS Forlì non si assumono alcuna responsabilità per danni a cose, persone o animali derivanti dall’utilizzo delle informazioni contenute in questa pagina. Tutto il materiale contenuto in questa pagina ha fini esclusivamente informativi.
Molte persone sfruttano il legno dei pallet per progetti personali. Il legno di cui è fatto un pallet solitamente è abete. L’abete è un legno economico e non particolarmente duro e si flette relativamente tanto, però più che valido per un pallet che ha un’architettura tale da permettergli di reggere diversi chilogrammi. Un Europallet ad esempio può reggere tranquillamente da 500 a 2500 kg circa, a seconda delle dimensioni.
In questo periodo (sto scrivendo a dicembre 2021) il costo del legno è sempre più alto ed anche i pallet lo stanno diventando. Può capitare però di trovarne di rotti e questi non possono essere più utilizzati e quindi potrebbe valere la pena usarli per divertirsi a creare qualcosa di diverso.
Sia che sia un Europallet (EPAL), un pallet GMA (ossia americano) o un pallet arrangiato da qualcuno, il modo i cui vengono messi insieme è il medesimo, con dei chiodi.
Elencherò 3 metodi per scomporre un pallet, dal più veloce al meno veloce, a seconda degli attrezzi che si hanno a disposizione.
Nota bene: assicurarsi che il pallet sia asciutto altrimenti si rischia di rompere il legno mentre lo si disassembla, in particolare per con il secondo e terzo metodo.
Metodo 1 (il più veloce per scomporre un pallet)
Attrezzi necessari.
Seghetto alternativo con lama per ferro
Punteruolo (per ferro)
Martello
Questo metodo prevede che le parti terminali dei chiodi rimangano infilati nei blocchetti cubici usati per dare altezza al pallet.
Con il martello bisogna distanziare leggermente le assi esterne dai blocchetti così da poter infilare la lama del seghetto e tagliare i chiodi. Dopo aver segato tutti i chiodi, tutte le parti del pallet saranno scomposte. Ora bisogna spingere fuori, con punteruolo e martello, i chiodi dalle assi di legno e il gioco è fatto.
Questo è il metodo più veloce ed efficiente, ma come già riportato le parti terminali dei chiodi rimangono del blocchetto e può risultare impossibile toglierli senza rovinare il blocchetto.
Qualora si voglia preservare il blocchetto e toglierci i chiodi da dentro vedi il metodo 2.
Metodo 2
Attrezzi necessari
Mazzetta (o un martello un po’ pesante)
Punteruolo
Questo metodo è più faticoso e può impiegare più tempo del primo metodo a seconda della fisicità della persona e dal numero di pallet.
Il metodo consiste semplicemente del martellare il pallet sui bordi così che le varie parti allontanandosi tra di loro si portino con loro i chiodi per intero e possano essere spinti fuori con un punteruolo.
La cosa migliore da fare è posizionare il pallet sul lato più corto (quelli che sarebbero i lati considerando il pallet a terra) e smartellare sul blocchetto fino a quando i chiodi non si sfilano. Dopo aver separato completamente i blocchetti dagli assi si tolgono i chiodi con il martello e il punteruolo se necessario.
Questo metodo può essere rischioso se si ha un legno molto secco o molto umido, oppure se imprime troppa forza, in quanto così il legno si andrà a scheggiare o peggio crepare.
Metodo 3
ATTREZZI NECESSARI
Piede di porco (o asta metallica)
Se non si hanno troppo attrezzi a disposizione è sufficiente fare leva tra gli assi affinché le varie assi si tirino via i chiodi e si separino le singole parti. Infine, per togliere i chiodi basta spingerli contro il pavimento così che si sfilino dall’altra parte.
Questo metodo è il più lento e faticoso ma può comunque essere preso in considerazione in particolari condizioni.
In tutti i metodi si riescono a recuperare diversi chiodi che consiglio di conservare così da riutilizzarli. Anche se piegati possono essere raddrizzati.
*Makers ITIS Forlì non si assumono alcuna responsabilità per danni a cose, persone o animali derivanti dall’utilizzo delle informazioni contenute in questa pagina. Tutto il materiale contenuto in questa pagina ha fini esclusivamente informativi.
Innanzitutto cos’è uno scatto remoto per cellulari, a cosa serve? Uno scatto remoto è un telecomando che serve per scattare foto e registrare video senza toccare il cellulare.
È uno strumento molto utile sia in fotografia che in astrofotografia che permette di catturare immagini e video senza il rischio di far vibrare l’intera apparecchiatura.
Tecnologie, pro e contro
Esistono diverse tecnologie usate per gli scatti remoti per cellulari : mediante filo collegabile al jack delle cuffiette, mediante Bluetooth, ecc… Ognuno di questi ha dei pregi e dei difetti che vanno valutati a seconda dell’utilizzo che se ne vuole fare.
Uno scatto remoto per cellulari Bluetooth ha la comodità di non avere nessun filo di intralcio, inoltre ha delle distanze di funzionamento generose. L’inconveniente è la stabilità del segnale wireless (tra il telecomando ed il cellulare) che potrebbe venir meno, impedendo lo scatto delle foto e la ripresa video.
Lo scatto remoto con filo non ha problemi di affidabilità, ogni volta che si preme il pulsante il cellulare riprende l’immagine. L’unico inconveniente è la lunghezza del filo che può limitare la distanza da cui si esegue lo scatto e limitare i movimenti del fotografo.
Costruiamo uno scatto remoto per cellulari*
Di seguito costruiamo uno scatto remoto basandoci su un cellulare Samsung con attacco jack per le cuffiette (TRRS) .
La prima cosa da fare è di attivare sulle impostazioni del cellulare lo scatto con i tasti del volume
Successivamente possiamo procedere in due modi: attacchiamo le cuffiette al cellulare e scattiamo le foto premendo i tasti del volume sulle cuffiette (fine del divertimento), oppure costruiamo un nostro scatto remoto personalizzabile con un filo di lunghezza a piacere.
2 resistenze da 33 OHM (1/4W) 1 resistenza da 470 OHM (1/4W) 1 pulsante (push button switch Normalmente Aperto) 1 cavo con connettore TRRS (jack 3.5mm) lungo a piacere nastro isolante o guaine termo-restringenti (per isolare i collegamenti) saldatore e stagno
La strategia alla base di questo scatto remoto è di imitare il tasto volume delle cuffiette. Per fare questo bisogna collegare le resistenze e il pulsante come riportato nello schema seguente.
Il filo audio collegato al jack TRRS da 3.5mm sarà formato da 4 fili molto sottili con gli stessi colori indicati nello schema, per poterli saldare alle resistenze occorrerà bruciare con un accendino lo smalto isolante colorato presente sull’estremità. Durante questo passaggio bisogna fare attenzione a non applicare troppo calore per non bruciare l’intero filo.
Tutti i collegamenti sono saldati con il saldatore a stagno ed isolati opportunamente con guaine termo-restringenti. Prima di collegare lo scatto remoto al cellulare assicurati di aver collegato correttamente tutti i componenti aiutandoti con un tester in funzione “continuità”.
Terminati i collegamenti riponi tutto dentro un piccolo contenitore (noi abbiamo riciclato il guscio dei tasti di un paio di cuffiette rotte) e assicura il tutto con colla e fascette.
Conclusioni
Ora che hai costruito il tuo scatto remoto puoi usarlo in mille modi diversi, noi Makers lo useremo per fare astrofotografia e montato su una stampante 3D per fare degli scatti per i timelapse. Aggiungi ai commenti i tuoi possibili utilizzi per questo fantastico accessorio.
*Makers ITIS Forlì non si assumono alcuna responsabilità per danni a cose, persone o animali derivanti dall’utilizzo delle informazioni contenute in questa pagina. Tutto il materiale contenuto in questa pagina ha fini esclusivamente informativi.
Una plastica è un materiale costituito da polimeri, ossia molecole molto “grandi”. Queste molecole possono essere assimilate a una catena di molecole più piccole, dette monomeri. Un qualsiasi materiale plastico può essere rappresentato da una catena di monomeri e a seconda degli elementi che la compongono e della loro disposizione si definisce un diverso materiale.
Cos’è la plastica? E perché va a finire tutto nello stesso bidone?
Ci hanno sempre detto di mettere la plastica in un contenitore apposito, senza carta, vetro, o altri materiali anche se a volte la buttiamo insieme ai metalli. Quindi il perché venga buttato insieme ai metalli dipende dagli impianti di separazione dei singoli enti di raccolta. La si separa da altri materiali perché, come in molti già sapranno, la si vuole riciclare. Ma viene davvero riciclata?
Dipende cosa si intende con riciclo.
In un mondo perfetto saremmo in grado di trasformare in un nuovo prodotto circa l’80% della plastica con cui entriamo in contatto giornalmente. Se si vuole sfruttare ulteriormente la rimanente dovrebbe essere bruciata per ottenere altra energia con però tutte le conseguenze di inquinamento dovute alla combustione.
Nel mondo in cui viviamo la plastica effettivamente riciclata è molto poca. In Italia ce la caviamo abbastanza bene rispetto al resto di Europa e ancora meglio rispetto al resto del mondo. In Italia si riesce a riciclare quasi il 50% della plastica che viene ritirata dai centri urbani… A pensarci bene però non è un valore così elevato. Questo perché si intende il 50% degli imballaggi di cibi o oggetti comuni e non dei materiali che costituiscono i giochi per bambini, palloni, calzature, pennarelli e tutti gli scarti di produzione che difficilmente vengono riciclati, al massimo bruciati per semplicità.
Per chiarire ciò bisogna definire i tipi di plastica. I principali materiali che definiamo “plastica” con cui entriamo in contatto sono i materiali termoplasticie materiali termoindurenti.
I primi sono quei materiali che riusciremmo a riciclare senza grossi problemi. Questi si degradano relativamente poco. Per poterli riciclare più facilmente vengono ulteriormente catalogati.
Forse vi saranno noti i simboli qui sopra, o forse no… Questi sono dei simboli usati a livello internazionale per indentificare alcuni tipi di materiali termoplastici usati prevalentemente con gli alimenti. Sono usati per bottiglie di plastica, contenitori di saponi, sacchetti di patatine o copertura di cioccolatini.
Il simbolo con le tre frecce identifica il fatto che il materiale è riciclabile (è presente anche su prodotti di carta, vetro e alluminio). Il numero all’interno rappresenta il materiale specifico anche se il numero 7 identifica molti tipi di polimeri. Nel 50% di plastica riciclata in Italia citata prima sono inclusi quasi esclusivamente il numero 1 (di cui fanno parte la maggior parte delle bottiglie di bevande) e il numero 2 (che include i flaconi di detersivi) perché sono i materiali che vengono maggiormente usati. In realtà, il polimero identificato dal numero 1, il PET, non è il massimo da riciclare in quanto questa termoplastica si degrada nel tempo.
Nel numero 7 spesso sono inclusi materiali molto comuni ma usati poco per alimenti, ad esempio l’ABS. L’ABS è un materiale usatissimo per i giochi, infatti i Lego, i mattoncini colorati, sono fatti in ABS. Nonostante il suo largo uso viene riciclato pochissimo.
Esistono tanti altre termoplastica ma una che è diventata famosa ultimamente per essere compostabile merita di essere citata: il PLA (acido polilattico). Anche se definito compostabile, cioè trasformabile in compost così che possa “dissolversi” in atmosfera naturalmente, non si riesce a sfruttare questa sua caratteristica. Esistono pochissimi impianti in Europa in grado di “compostare” il PLA però nelle confezioni dei nostri prodotti come piatti, bicchieri o posate c’è scritto di buttarlo nell’umido. Questo materiale è dannoso per una raccolta dell’umido in quanto se non si eseguono i processi giusti il PLA si comporterà come una normale plastica e non si degraderà. Anche se buttato nella plastica arreca danno alla linea di riciclo a causa della sue proprietà abbastanza differenti da altre termoplastica. La cosa corretta da fare sarebbe cestinare questo prodotto nell’indifferenziata.
L’altra categoria principale di materiali con cui entriamo in contatto sono i materiali termoindurenti. A noi possono apparire simili alle termoplastiche ma hanno caratteristiche differenti. In particolare questi materiali sono paragonabili al pane: si crea un composto e lo si cuoce. Ovviamente il processo di realizzazione di questi materiali non è così semplice in quanto per la loro formazione sono necessarie temperature e pressioni ben precise. La similitudine col pane serve per capire che se prendessi questo materiale e lo riscaldassi sperando di scioglierlo come si farebbe con una termoplastica ne rimarrei deluso perché un materiale termoindurente si brucerebbe.
Con questi materiali si fanno parti che devo resistere ad alte temperature o che necessitano di proprietà meccaniche particolari come utensili per la cucina o componenti di veicoli.
I materiali termoplastici, come già detto, possono essere riutilizzati, basta scaldarli e darli nuova forma, anche se questo non sempre avviene; mentre i materiali termoindurenti non possono essere riciclati.
Forse qualcuno si chiederà: il resto della plastica non riciclata che fine fa?
Questa in gran parte viene dispersa o bruciata per creare nuova energia.
La dispersione di materiale non dovrebbe nemmeno essere contemplata perché causa inquinamento dei mari e delle terre provocando un grosso impatto sulla flora e la fauna. La combustione può essere una valida alternativa per quei materiali che non possono essere riutilizzati in alcun modo. La plastica, oltre ad essere un materiale molto versatile è in grado di sprigionare una quantità di energia superiore a molti idrocarburi in seguito alla combustione.
Quindi, cos’è la plastica? Riassumendo si può dire che sia un’insieme di materiali, ad alto contenuto energetico (motivo per cui viene anche bruciata), caratterizzata da una struttura chimica di polimeri.
Con il tempo è sempre di più la plastica che viene riciclata anche se a fatica perché per poter elaborare e trasformare la plastica ci vuole una discreta quantità di energia e questo rende il processo relativamente costoso.
Esistono altri tipi di polimeri che spesso definiamo plastica come siliconi, resine o altri materiali che sono più rari da incontrare, ma il loro trattamento per l’eventuale riutilizzo è un po’ più complesso.
Questo articolo voleva dare qualche spunto per informarsi di più su ciò che definiamo plastica. Si potrebbe approfondire riguardo le tonnellate di platica che viene buttata in bidoni diversi da quelli a loro dedicati o di tutta quella plastica negli oceani che presto sarà un tutt’uno con la terra ferma, ma spero che qualcuno cerchi di usare la plastica in modo più responsabile e la getti nel bidone apposito con la speranza che venga riciclata correttamente.
*Makers ITIS Forlì non si assumono alcuna responsabilità per danni a cose, persone o animali derivanti dall’utilizzo delle informazioni contenute in questa pagina. Tutto il materiale contenuto in questa pagina ha fini esclusivamente informativi.
La tensione superficiale è la tensione meccanica di coesione tra le molecole sulle superfici esterne dei fluidi. Le molecole interne alla massa del fluido hanno una risultante delle forze di attrazione circostanti nulla mentre quelle sulla superficie sono attratte verso il centro della massa. La superficie dei fluidi tende a contrarsi e perciò a ridurre al minimo lo spazio occupato dalle molecole superficiali. La tensione superficiale inoltre determina una forza tangenziale alla superficie che la tende come una membrana elastica.
Questa forza è responsabile sia del fenomeno della capillarità sia della forma delle bolle di sapone.
Tensiometro casalingo*
La tensione superficiale si può misurare in casa con un tensiometro casalingo
1 cannuccia
2 spilli
2 graffette
1 bicchiere
filo di cotone
nastro adesivo
foglietto di carta
Costruiamo una bilancia a bracci uguali trafiggendo al centro della cannuccia uno spillo. Usiamo un bicchiere capovolto come piedistallo per fissare verticalmente due graffette con dello scotch. Poniamo la cannuccia e lo spillo in equilibrio sulle graffette e leghiamo alle due estremità della cannuccia dei fili di cotone. Ad una estremità legheremo uno spillo mentre all’altra un cestino di carta per reggere i pesi. Lo spillo legato nel suo centro dovrà rimanere completamente sospeso ed orizzontale. Il cestino è ricavato ripiegando in quattro un foglietto di carta. Bilanciamo il tutto attaccando dello scotch alle due estremità della cannuccia. Il braccio della bilancia dovrà essere orizzontale lasciando sia lo spillo che il cestino sospesi da terra.
Misurazione
La tensione superficiale dei fluidi può essere definita come la forza che agisce su un taglio sulla superficie del fluido. La tensione superficiale nel S.I. si misura in N/m e si esprime con la lettera gamma. Poniamo un recipiente pieno del fluido da misurare sotto l’ago del tensiometro, caliamo l’ago sulla superficie del fluido e aspettiamo che la cannuccia sia stabile. Aggiungiamo gradualmente e con delicatezza dei pesetti (chicchi di riso o granelli di sabbia) sul cestino della bilancia fino a che l’ago non si staccherà dalla superficie del fluido. Noteremo che il fluido tenderà a trattenere lo spillo sulla superficie fino a che la massa dei pesi nel cestino non supererà la tensione superficiale. Pesiamo a parte con una bilancia digitale da cucina i pesi aggiunti e ricaviamo la tensione superficiale del fluido con la seguente formula:
γ tensione superficiale (N/m) m massa dei contrappesi (Kg) g accelerazione di gravità (m/s*s) L lunghezza dello spillo sulla superficie del fluido (m)
Direzione della tensione sulle superfici
Si può verificare che la tensione superficiale si distribuisce in modo uniforme in tutte le direzioni di una superficie di un fluido.
acqua e sapone
cannucce o fil di ferro
filo di cotone fine
stuzzicadenti
pinzette (opzionali)
Costruiamo con delle cannucce o del fil di ferro una cornice chiusa (la forma è indifferente) ed immergiamola in acqua e sapone. Tolta la cornice dalla soluzione saponosa si formerà una membrana molto sottile ed elastica al suo interno. Leghiamo il filo di cotone per formare un piccolo anello che andrà bagnato nella soluzione saponata. Con l’aiuto di un paio di pinzette (bagnate) appoggiamo l’anello di cotone sulla membrana di sapone all’interno della cornice. L’anello rimarrà sospeso e potrà muoversi liberamente. Con l’aiuto di uno stuzzicadenti buchiamo la membrana di sapone all’interno dell’anello di cotone. Si noterà che l’anello verrà tirato immediatamente in tutte le direzioni formando un cerchio perfetto. Questo conferma che la tensione superficiale dei fluidi agisce tangenzialmente alla membrana di sapone e in modo uguale in tutte le direzioni.
Effetto Marangoni
È il trasferimento di materia lungo una superficie dovuto ad un gradiente di tensione superficiale. Il fenomeno fu osservato per la prima volta negli “archetti del vino” da James Thomson nel 1855. L’effetto fu studiato da Carlo Marangoni che ne pubblicò i risultati nel 1865. Il fluido con più alta tensione superficiale attrae a se con più forza il fluido circostante perciò in regioni con bassa tensione superficiale il fluido scorre via.
Inchiostro magico
latte o acqua
stuzzicadenti
sapone
piatto
colorante alimentare o pepe in polvere
Versiamo del latte in un piatto e facciamo cadere qualche goccia di colorante al centro evitando che si propaghi per tutta la superficie. Intingiamola punta dello stuzzicadenti nel sapone e successivamente pizzichiamo con tale punta il centro della macchia di colorante sulla superficie del latte. Si nota una rapida propagazione del colorante dal centro verso l’esterno. Il sapone è una sostanza (tensioattivo) che diminuisce la tensione superficiale dei fluidi, nel nostro caso lo usiamo per creare una differenza (gradiente) di tensione sulla superficie del latte. Dato che la tensione superficiale al centro del latte è inferiore a quella circostante la superficie viene allungata verso l’esterno evidenziata da un chiaro spostamento del colorante.
Barchetta a propulsione
Per osservare in modo più divertente l’effetto Marangoni e la terza legge di Newton si può costruire una barchetta a reazione. Intagliamo con un paio di forbici un piccolo pezzo di carta a forma di “casa con il tetto a V”.
Tagliamo un canale che parte dal centro e finisce nella parte posteriore della barca largo qualche millimetro. Poniamo il foglio di carta opportunamente tagliato sul pelo dell’acqua e intingiamo uno stuzzicadenti con la punta sporca di sapone nell’acqua all’interno del canale al centro della barchetta. Il pezzo di carta subirà una propulsione in avanti molto rapida.
Bolle di sapone e legge di Laplace
La bolla di sapone è uno strato sottile di acqua e sapone ma racchiude in se una miriade di misteri matematici, fisici e chimici. Le bolle di sapone sono degli esempi concreti di complessi problemi matematici di minimizzazione di superficie in un dato volume.
I film di sapone rappresentano superfici minime che sono state sfruttate da matematici, ingegneri e architetti. La legge di Laplace correla la pressione interna di una bolla con il suo raggio è può essere verificata con un semplice esperimento
ΔP differenza di pressione esterna/interna (Pa) γ tensione superficiale (N/m) R raggio della bolla (m)
2 cannucce
nastro adesivo
acqua e sapone
forbici
Pratichiamo un foro non passante sul centro di una cannuccia con le forbici ed inseriamo una estremità della seconda cannuccia formando un raccordo a T. Sigilliamo tutte le giunzioni con del nastro adesivo per evitare perdite. Immergiamo e rialziamo le due estremità laterali del giunto appena costruito nella soluzione saponosa e soffiamo nella cannuccia centrale. Per avere due bolle di grandezza differente si strozza momentaneamente una delle due estremità laterali mentre si insuffla. Formeremo due bolle di sapone di grandezza differente attaccate alle due estremità della T e chiuderemo con il dito l’estremità superiore dove abbiamo soffiato.
Risultato
Le due bolle saranno a contatto come due vasi comunicanti perciò ci aspetteremo che l’aria passi da quella più grande alla più piccola fino ad equilibrare il sistema ,formando due bolle della stessa dimensione. In realtà la bolla più piccola si rimpicciolirà ancora di più gonfiando quella più grande. Questo fenomeno avviene perché l’aria tende a spostarsi verso le regioni a pressione più bassa perciò deduciamo che nella bolla più grande ci sia una pressione minore rispetto a quella più piccola. Questo esperimento conferma la Legge di Laplace che afferma che la pressione interna di una bolla è inversamente proporzionale al suo raggio.
*Makers ITIS Forlì non si assumono alcuna responsabilità per danni a cose, persone o animali derivanti dall’utilizzo delle informazioni contenute in questa pagina. Tutto il materiale contenuto in questa pagina ha fini esclusivamente informativi.
In questo articolo costruiamo insieme un episcopio, uno strumento inventato da Eulero per proiettare e ingrandire le immagini. Vediamo in cosa consiste!!
Occorrente:
2 scatole di cartone
lente d’ingrandimento 45X
lampadina
forbici
colla vinilica
È possibile anche usare la torcia del telefono, al posto della lampadina.
Procedimento:
praticare due fori sulla faccia frontale della scatola, uno grande per la lente e uno piccolo per la lampadina. Fissare la lente alla scatola aiutandosi con la colla vinilica e degli anelli di cartone, ricavati dalla seconda scatola. Inserire la lampadina* o la torcia all’interno della scatola e mettere uno schermo tra la lampadina e la lente. Tagliare una seconda superficie di cartone, per ricavarne lo schermo che reggerà l’immagine all’interno dell’episcopio. Continuare l’esperimento in una stanza buia, in modo che la lampadina illumini solo la figura. Regolare la distanza tra lo schermo e la lente finché l’immagine proiettata sul muro non sarà messa a fuoco. Assicurarsi che la scatola sia ben chiusa.
Osservazioni:
l’immagine inserita dentro l’episcopio risulta ingrandita sul muro e capovolta. Utilizzando una fonte luminosa più intensa, come una lampadina da 60W o una torcia elettrica, l’immagine appare più nitida.
Spiegazione:
la lente presenta due fuochi, dove convergono i raggi luminosi che colpiscono la figura. Se l’immagine viene posta ad una distanza maggiore rispetto al fuoco, la figura proiettata risulta ribaltata e per la particolare geometria della lente verrà anche ingrandita.
Questo è il modo in cui noi makers costruiamo un episcopio!
Provate a ripetere l’esperimento utilizzando altri oggetti, come delle piccole monete e apportando delle piccole modifiche alla vostra scatola e cambiando la lente.
Fateci sapere nei commenti cosa siete riusciti a proiettare con il vostro episcopio DIY!!
*Makers ITIS Forlì non si assumono alcuna responsabilità per danni a cose, persone o animali derivanti dall’utilizzo delle informazioni contenute in questa pagina. Tutto il materiale contenuto in questa pagina ha fini esclusivamente informativi.
Sono un perito chimico e studente di chimica all'università di Bologna. Mi occupo di chimica, elettronica e riciclo. Faccio parte dei Makers dal 2015 da quando abbiamo fondato il gruppo.
Tutti senza saperlo usiamo continuamente questi alimentatori switching. Si trovano nei televisori , computer, caricabatterie dei cellulari, ecc… Non sono gli unici tipi di alimentatori elettronici ma sono sicuramente i più comuni ed efficienti. Ma come sono fatti questi alimentatori e come mai sono così utilizzati?
Pro e contro degli alimentatori switching
PRO
piccolo ingombro e peso a parità di potenza
rendimento maggiore
minore calore prodotto
maggiore tolleranza della tensione e frequenza di entrata
basso costo
CONTRO
circuiti complessi
rumori sulla linea di alimentazione e di uscita
rumore magnetico
Il rumore o ripple prodotto da questi alimentatori è molto complesso, ha una frequenza fondamentale che coincide con quella di commutazione dell’alimentatore e armoniche che arrivano fino ai MHz.
Schema principale degli alimentatori switching*
Esistono diversi tipi di alimentatori switching ma tutti presentano dei “blocchi” comuni che formano lo scheletro fondamentale dell’alimentatore.
Funzionamento
Ciò che permette una efficienza maggiore è l’impiego di un nucleo di ferrite più piccolo rispetto ai comuni trasformatori lineari che opera ad una frequenza più elevata di quella di rete.
La tensione di rete viene raddrizzata e livellata da un ponte di Graetz e da un condensatore elettrolitico successivamente la tensione continua passa attraverso un oscillatore che produce una onda quadra ad alta frequenza regolata in PWM in base al carico. In uscita dall’oscillatore la tensione alternata viene fatta passare nel trasformatore per essere poi rettificata e livellata. Per garantire la giusta tensione in uscita all’alimentatore esiste un anello di retroazione che agisce sull’oscillatore PWM. Nel circuito sono presenti dei filtri all’entrata e all’uscita dell’alimentatore, come ad esempio i filtri EMI, che evitano la propagazione dei rumori elettrici prodotti.
Alimentatore casalingo per il laboratorio di elettronica
Come detto in precedenza gli alimentatori switching sono largamente utilizzati negli elettrodomestici e nei computer perciò noi makers possiamo sfruttare questa situazione a nostro vantaggio.
Uno strumento fondamentale nei laboratori di elettronica è l’alimentatore, di solito si utilizzano degli alimentatori lineari perché forniscono una tensione “pulita” priva di rumori però hanno un costo elevato. Per permettere anche ai neofiti di allestire un laboratorio di elettronica a basso costo e senza troppe pretese vi presentiamo la costruzione di un alimentatore partendo da un ATX da computer fisso.
Alimentatore ATX computer fisso
I computer fissi hanno all’interno del case un alimentatore di tipo switching chiamato ATX, esso fornisce le principali tensioni ai vari componenti del computer ( hard disk, scheda madre, lettore dischi, ecc…) e possiede una discreta potenza ideale per gli esperimenti base di elettronica.
Le tensioni in uscita dal ATX sono riferite alla terra (GND) collegata alla carcassa dell’alimentatore e alla messa a terra della rete domestica e sono:
+12V giallo
+5V rosso
+3,3V arancione
0V GND nero
-5V bianco
-12V blu
Se si collega un semplice alimentatore ATX alla rete domestica questo non si accenderà perché deve essere opportunamente abilitato perciò per abilitare un alimentatore di questo tipo non basta mettere l’interruttore su ON ma deve essere fatta una giusta modifica tra due fili del connettore di uscita. Esiste un unico filo verde che esce dall’alimentatore che se viene collegato al GND “accende” l’ATX. I fili verde e nero si possono collegare o in modo permanente( saldati, intrecciati, ecc…) o con un interruttore (soluzione preferibile).
Stato delle alimentazioni
Esistono altri due fili particolari che ci avvisano dello stato di funzionamento dell’alimentatore:
+5SB viola
PWR_OK grigio
Il filo viola restituisce una +5V quando l’alimentatore verrà inserito nella rete domestica e l’interruttore primario verrà acceso (anche senza collegare i fili verde e nero). Tra +5SB e la GND si può collegare un led in serie ad una resistenza da 10Kohm che ci avvisa della presenza di tensione in entrata all’alimentatore.
Il filo grigio restituisce una +5V non appena si collegano i fili verde e nero. Tra PWR_OK e la GND si può collegare un led in serie ad una resistenza da 10Kohm che ci avvisa della presenza di tensione in uscita all’alimentatore.
Gli alimentatori ATX presentano una funzione molto comoda detta protezione che “spegne” l’alimentatore se percepisce un cortocircuito sulle uscite. Ciò evita danni ai circuiti alimentati.
Una volta apportate le giuste modifiche si può procedere con la creazione di un apposito pannello frontale da aggiungere alla carcassa dell’alimentatore. Sul pannello si inseriranno gli interruttori, spie e conferirà così un aspetto più accattivante all’alimentatore da banco di riciclo.
*Makers ITIS Forlì non si assumono alcuna responsabilità per danni a cose, persone o animali derivanti dall’utilizzo delle informazioni contenute in questa pagina. Tutto il materiale contenuto in questa pagina ha fini esclusivamente informativi.